Shakespeare il bardo

Si è interessato più di ogni altro tragediografo contemporaneo al Piccolo Popolo. Nella La Tempesta c’è uno spirito etereo di nome Ariel, che è a servizio del mago Prospero, e Calibano, il figlio della strega. Mercuzio cita la potenza della Regina Mab, una fata che ha potere sui sogni dei dormienti in Romeo e Giulietta; in Sogno di una notte di mezza estate, le fate non intervengono sui sogni degli uomini ma influenzano le azioni dei personaggi umani.

Attraverso l’utilizzo delle fate, Shakespeare ci mostra il rapporto dell’uomo con l’infinito. Esse ci aprono le porte del mistero che vive in ognuno di noi per dimostrare quanto poco conosciamo il nostro essere. In Sogno di una notte di mezza estate, le coppie di innamorati girano per il bosco fuori dalla città di Atene, mentre Ermia e Lisandro cercano di fuggire insieme, e Demetrio, che è geloso, li segue. A sua volta,  Demetrio è seguito da Elena. Oberon, re degli elfi, utilizza un succo magico affinché Demetrio torni ad innamorarsi di Elena, ma succede qualcosa non previsto: la pozione amorosa viene spruzzata negli occhi di Lisandro e il triangolo erotico viene così rovesciato.

Se io fossi un uomo: William Shakespeare

È necessario che destiate in voi la fede. Ora stian tutti fermi, se qualcuno crede ch’io mi do a una pratica illecita, esca subito. Il racconto d’inverno

Come scrisse George Steiner, “le parole che usiamo per rendergli omaggio sono sue”. Al pari di Omero e Dante, Shakespeare costituisce una delle tre corone dell’umanità letteraria, uno di quegli snodi immaginativi e espressivi verso cui converge tanto della tradizione, dai suoi tesori più raffinati ed elitari alle manifestazioni più rozze o semplicemente popolari, compiendovi​ tuttavia un imprevedibile salto quantico, divenendo a loro volta ​un enzima che continua a fecondare ​l’​l’intero orizzonte successivo, parte integrante del nostro stesso modo di guardare, di pensare. Rinnovano gli archetipi e ne aggiungono di nuovi. Per Shakespeare questo è vero anche per il mondo del fantastico letterario e più specificamente del ​fantasy stesso. Certo, i motivi folkorici ​e magari direttamente ​tratti dalla tradizione dei poemi cavallereschi – le antiche storie che Lear vorrebbe raccontarsi con Cordelia in prigione – costellano la sua intera produzione, dalle streghe di Macbeth alla fiabesca selva di Arden, alle parole con cui una popolana ricorda la morte di Ser Falstaff, e assicura che adesso il vecchio cavaliere crapulone “riposa nel seno di Artù”, ma il rapporto di Shakespeare con la terra degli Elfi è assai più complesso e significativo.

La sua scrittura si apre e chiude, proprio con le fate. L’eloquio spregiudicato e frizzante di Mercuzio si fa beffe di Romeo evocando ​la Regina Mab, che è la levatrice delle fate! Non è più grande della pietra che sta sull’anello dell’assessore comunale. Arriva sulla punta del naso di chi dorme, trainata da una squadra di atomi. Il suo cocchio ha i raggi delle ruote fatti con lunghe gambe di ragno, il mantice è fatto con ali di cavalletta, i finimenti con umidi raggi di luna; la sua frusta è un ossicino di grillo, lo sverzino un filo d’erba. Il suo cocchiere è una zanzarina con un mantello grigio, più piccolo della metà di uno di quei bruchi tondi che si annidano nelle dita di quelle ragazze oziose. Il cocchio, poi, è un guscio di nocciola lavorato dallo scoiattolo legnaiolo o dal vecchio tarlo che, è risaputo, sono da sempre i carrozzieri delle fate. E così, una notte dopo l’altra, la regina Mab galoppa attraverso il cervello degli amanti che subito sognano l’amore!

Tale mondo miniaturizzato e potenzialmente lezioso, che arriverà fino alle fate di carta spacciate per autentiche nelle foto di fine ‘800 faceva inorridire Tolkien: “si tratta in gran parte d’una faccenda letteraria in cui William Shakespeare e Michael Drayton hanno giocato un ruolo. La ​Nymphidia di Drayton è uno degli antenati di quella lunga linea di fatine dei fiori e spiritelli svolazzanti con antenne che detestavo tanto da bambino, e che i miei figli detestano a loro volta. Andrew Lang nutriva sentimenti simili. Nella prefazione a ​Il Libro Lillà delle Fate egli fa riferimento ai racconti di noiosi autori contemporanei: ‘Cominciano sempre con un ragazzino o una bambina che escono in giardino e incontrano le fate dei polianthus, delle gardenie e dei fiori di melo… Queste fate cercano di essere divertente e non ci riescono, oppure di predicare, riuscendoci benissimo”. Ma tale faccenda ebbe inizio, come dicevo, molto prima del XIX secolo, e molto tempo aveva già ottenuto tale stanchezza, certamente quella di cercare di essere divertente senza riuscirci.”

Secondo alcuni, sarà Alexander Pope ad attribuire in seguito alle fate non solo destrieri minuscoli, ma ali stesse d’insetto:

Chi al sole le ali da insetto dispiega,
fluttua sulla brezza, o affonda in nubi d’oro.
Forme trasparenti, troppo sottili per l’umana vista,
fluidi corpi quasi nella luce sciolti.
Libere al vento le ariose vesti volano,
fini lucenti orditi di rugiadoso velo.

Per Tolkien, invece, Faerie era un mondo di bellezza e forza maggiori e non minori del nostro, che comprendeva certamente gnomi e folletti ma anche – se non soprattutto – principi e regine capaci di rapire e amoreggiare con i mortali, alti come e più di noi, la cui intensità di vita rigetta la nostra povera carne mortale tra i sogni balbettanti. Invece il cavalier Pigwiggen cavalca una vispa forfecchia e manda alla sua amata, la regina Mab, un bracciale fatto di occhi di formica, dandole appuntamento in un calice di primula. Ma la storia che si narra framezzo a tutte queste bellurie, è una tetra vicenda di intrighi e segrete macchinazioni; il galante cavaliere e il furibondo marito precipitano nella palude, e a calmare la loro ira è una sorsata delle acque del lete. Meglio sarebbe stato se il Lete avesse inghiottito tutto quanto.

​Per questo​ Tolkien riteneva un mero cavaliere arturiano più “faeerico” d’un​o ​spiritello: “Oberon, Mab e Pigwiggen possono benissimo essere folletti e fate minuscoli, non esserlo invece Artù, Ginevra e Lancillotto; sta di fatto che quella della corte di re Artù, nel bene e nel male, è assai più una storia di fate di quanto non sia questa favola di Oberon.”

Tuttavia, parafrasando l’​Amleto​, nel cielo e nella terra di Shakespeare c’è molto altro. Il regno di Belmonte con la prova del triplice scrigno d’oro, argento e piombo, fin dal nome costituisce un contraltare cortese e fiabesco alla Venezia di Shylock, in uno scontro allegorico tra quantità e qualità (ma Shakespeare sa sempre mescolare le carte e portarci dove da soli non saremmo andati, e proprio l’usuraio ebreo, che nell’economia della trama pare talvolta ridotto all’orco delle fiabe, la leggenda nera e sanguinaria che in quegli stessi anni veniva invocata per scatenare le persecuzioni, piange la perdita d’un pegno d’amore che non avrebbe barattato per ricchezze incommensurabili).

Tuttavia finora si è trattato di accenni o parentesi. ​Romeo e Giulietta avrebbe potuto benissimo non comprendere Maab. ​Sogno d’una notte di Mezza Estate risulta invece indissolubile dai suoi elementi fantastici. Anche qui, si evocano elementi importanti delle leggende, come il ​changeling (il bambino rapito dalle fate e ​spesso ​scambiato con una loro creatura), ma l’intero ordito, con i suoi amanti  ​le cui rispettive fughe e inseguimenti sono alimentati dagli incantesimi elfici​, rievocano, come notava Mario Praz, l’Ariosto: “quando fu composto ​Il Sogno era già apparsa la versione del ​Furioso del Harington. Che Shakespeare la conoscesse e se ne ispirasse pel più fantastico dei suoi drammi, è possibile, ma anche senza voler parlare di fonte vera e propria, rimane il fatto d’una affinità più profonda che in qualsiasi altra opera della letteratura inglese, non esclusa la stessa ​Faerie Queene​.”

​Ma Shakespeare non si accontenta di due piani e ne imposta addirittura quattro: il regno magico di Oberon con le sue scaramucce, la corte di Teseo, le due coppie di amanti, e la compagnia di attori popolani, arrivando al geniale cortocircuito per cui la fata Titiana s’innamora perdutamente del tessitore Bottom​, mentre questi sfoggia una testa d’asino. I seduttori per antonomasia finiscono a loro volta sedotti, e ​non dai più aristocratici o avvenenti dei mortali.

​Secondo G. K. Chesterton, in quella che parrebbe una folle sarabanda che coinvolge principi e fornai, elfi e adolescenti, si annida piuttosto la legge della simpatia universale:

la più grande commedia di Shakespeare risulta anche, da un certo punto di vista, la più grande delle sue opere teatrali. …Il Sogno d’una notte di mezza estate è uno studio psicologico, non di un singolo uomo, ma dello spirito che unisce l’umanità. Sei uomini possono sedersi a chiacchierare in una locanda; possono non conoscere i nomi degli altri o vedersi prima o dopo, ma la notte o il vino o le grandi storie, o qualche discussione ricca e ramificata può unirli, se non assolutamente l’uno con l’altro, almeno col settimo uomo invisibile, che costituisce l’armonia di tutti loro. Quel settimo uomo è l’eroe del ​Sogno d’una notte di mezza estate​.

​Renè Girard si direbbe d’accordo: “la commedia smette di essere un mosaico di temi eterogenei, come i critici l’hanno sempre descritta, e diventa una forza dinamica unitaria, che abbraccia tutti e tre gli intrecci secondari, e fa sì che un processo crescente di disgregazione formale si ricomponga all’improvviso in una forma ordinata.” Ma forse la notazione più utile per il nostro percorso viene da un altro lettore, il romantico Hazlitt: “leggere questa commedia è come errare in un bosco al chiaro di luna.”

Dunque, anche qui, il fantastico non è tanto un elemento o una serie di personaggi, ma anzitutto uno ​spazio​, nel quale entrare e aggirarsi. Dalle terre delle regine elfiche e dei folletti si irradia un’ampiezza di forze, d’incanto, grazia e mistero, che si riflette anche nel mondo umano, dal padiglione dei re ateniesi ai giovani amanti, fino in fondo, letteralmente, visto che il tessitore capocomico si chiama appunto Bottom. La stessa magia corre tra tutti i mondi. Ma i ribaltamenti prospettici non finiscono qui. Come notava Chesterton, in quella che parrebbe la conclusione serena e razionale, che sorride delle fantasie notturne e pare derubricarle a moti irrazionali finalmente dispersi o addomesticati, è Puck che compare nuovamente sulla scena ​- è Faerie ad avere l’ultima parola. È il fantastico a giudicare l’ordinario:
tutti i sogni sono stati dimenticati, come un sogno malinconico ricordato per tutta la mattina potrebbe essere dimenticato nella certezza umana d’una altra festa trionfante alla sera, e così il gioco sembra naturalmente concluso. Ha avuto inizio sulla terra e finisce sulla terra. Chiudere il ​Sogno con un’eclissi di luce diurna è quindi un effetto geniale. Ma il tratto distintivo di questa commedia, come ho detto, è che il genio supera sempre se stesso, ed ecco un tocco aggiuntivo che rende l’intera commedia colossale. Teseo e il suo seguito si ritirano con un finale grandioso, pieno di umorismo e saggezza, tutte le cose vanno per il verso giusto, e la casa piomba nel silenzio. Poi giunge un debole suono di passettini, e per un attimo, per così dire, gli elfi guardano dentro la casa, chiedendosi qual è la realtà. “Supponiamo di essere noi le realtà e loro le ombre”. Se un tale finale fosse recitato come si deve, qualunque uomo moderno che tornasse a casa da teatro attraversando un paesaggio campestre, si sentirebbe scosso fin nel midollo.

Persino gli accenni in Shakespeare ispirano, persino ciò le strade non percorse, che altri autori giudicheranno veri e propri fallimenti. Nel solo Macbeth, secoli prima del Re degli Stregoni di Tolkien invulnerabile a ogni uomo e ucciso da una donna, c’è già un guerriero infernale che si crede invincibile perché gli è stato predetto che nessun nato di donna potrà ucciderlo – e che sarà infatti sconfitto da chi era stato partorito col taglio cesareo. Lo stesso Tolkien, deluso dalla foresta che pare effettivamente muoversi per poi rivelarsi banalmente un esercito di uomini mimetizzati con rami e foglie, immaginerà una vera foresta che entra in guerra con i suoi Ent.

Ma la medesima ricchezza di piani che avevamo rilevato nel fantastico comico del Sogno si ripete nell’ultima grande opera della maturità, quella Tempesta in cui a sua volta il fantastico e il fiabesco si rivelano – al pari del Chisciotte – lo spazio d’una vastità emotiva e immaginativa inedita, giacché qui Shakespeare sta rileggendo la sua intera opera e vocazione d’artista. I protagonisti stessi sono tre archetipi del fiabesco: il vecchio e saggio mago, un elfico spirito dell’aria e un orco brutale e commovente. Come notava Girard, Calibano e Ariel sono anche due facce  della scrittura di Prospero-Shakespeare stesso. C’è forse qualcosa che assomigli all’arte e al teatro più della magia? Anche lo scrittore evoca con le parole. Al pari del Dio biblico, anche l’attore dice e, per un breve momento condiviso, le cose sono: “Ariel rappresenta la maniera letteraria più raffinata, serena e nobile che l’ultimo Shakespeare cercava di sostituire sulle opere caotiche di Calibano. Sicorax muore prima dell’arrivo di Prospero senza aver liberato Ariel, sempre prigioniero nel suo albero. Lo spirito della Megera si perpetua grazie all’erede di lei, Calibano, divenuto de facto padrone del luogo. Secondo me, ciò significa che gli elementi calibaneschi presenti nell’opera di Shakespeare rinviano alla deplorevole condizione del teatro inglese  al tempo in cui aveva cominciato a scrivere. Prospero si rimprovera la sua eccessiva infatuazione per Calibano ma almeno in parte era vittima delle circostanze.”Dunque “La tempesta non è un atemporale ritratto dell’artista, ma una storia dinamica dell’opera di Shakespeare, divisa in due periodi, uno incarnato da Calibano, l’altro da Ariel”.

La struttura è quella de Il Conte di Montecristo: un uomo viene tradito da coloro di cui si fidava, ma incappa in un tesoro che gli consente di scatenare una vendetta. Solo che qui non si tratta di oro o ricchezze, ma della magia. La nave del perfido fratello di Prospero transita vicino all’isola dove questi era riuscito a sopravvivere, e l’incantatore scatena sui naufraghi un vortice di prodigi che dovrebbe farli impazzire, costringendoli a piangere, prostrarsi e umiliarsi. Ma quando sta per sferrare loro il colpo finale, si verifica un dialogo inaspettato, che consente un’imprevedibile capovolgimento, pari, per bellezza, alla trasformazione delle Erinni nelle Benevole negli ultimi versi della trilogia di Eschilo. Come già Puck sbirciava divertito nelle nostre case al termine del Sogno, stavolta è l’elfo Ariel che si permette di ricordare al suo padrone umano un’altra possibilità.

ARIEL
Sono isolati in un gruppo a quel modo che mi avete ordinato, precisamente come li avete lasciati: tutti prigionieri, signore, nel boschetto di tigli che protegge dalle intemperie la vostra grotta. Non possono muoversi finché voi non li liberiate. Il Re, suo fratello ed il vostro, continuano tutti e tre nel loro smarrimento mentre gli altri li compiangono pieni di dolore e di timore, specialmente colui che voi avete chiamato «il buon vecchio gentiluomo Gonzalo». Le lacrime gli scendono lungo la barba, come le gocce dell’inverno da un tetto di stoppia. I vostri incantesimi han così fortemente operato su loro, che, se ora li vedeste, sentireste intenerirsi il vostro cuore.

PROSPERO
Così tu credi, o spirito?

ARIEL
Il mio cuore s’intenerirebbe, se io fossi un uomo.

Si tratta di una di quelle vette, o quegli abissi, che non ci stancheremo mai di contemplare. Per bocca di Ariel, è la creazione artistica stessa che si appella alla nostra umanità, che ci suggerisce un altro modo di essere al mondo. Ma non si tratta semplicemente d’una generica situazione meta letteraria, per quanto complessa. Altro che modalità narrativa di consumo o d’evasione, o mera cornice: ancora una volta, in uno dei capolavori della letteratura universale, è il fantastico che giudica l’ordinario. Sono proprio gli elfi che ci aiutano ricordare come essere uomini tra gli uomini.

Il vecchio mago-scrittore accetta di perdonare, e prima di tendere le braccia al fratello traditore, tornare a casa e morire, leva un ultimo inno al mondo fantastico che lo ha accolto per anni, chiedendo un ultimo dono, un ultimo canto. Quanti artisti che abbiano cercato di raccontare la terra delle fate, alla fine della loro vita, volgendosi indietro, potrebbero fare propria questa struggente rievocazione finale:

Voi, o folletti delle colline, dei ruscelli, degli immobili laghi e dei boschi; e voi che sulle sabbie, coi piedi che non lasciano orma, inseguite Nettuno che si ritira e gli sfuggite allorché rifluisce; voi, gnomi, che al lume di luna formate quei circoletti di erba agra che la pecora non bruca; e voi, il cui divertimento è di far crescere i funghi di mezzanotte; e voi, che vi rallegrate a sentire il solenne rintocco del coprifuoco; col vostro aiuto —per quanto siate deboli, se abbandonati a voi stessi— io ho offuscato il sole meridiano, eccitato i venti ribelli, suscitato tra il verde mare e l’azzurra volta una ruggente guerra, dato fuoco al terribile strepitoso tuono, spaccato la robusta quercia di Giove con lo stesso fulmine di lui, scosso il promontorio dalla sua solida base, divelto il pino ed il cedro dalle radici. Ad un mio ordine, le tombe hanno svegliato coloro che vi dormivano, si sono aperte e li hanno lasciati uscire per virtù della mia arte tanto possente. Ma ora io la rinnego, questa rozza arte magica, e quando le avrò domandato, come appunto fo ora, una musica celestiale per raggiungere il mio scopo agendo sui sensi di costoro ai quali è destinato questo aereo incanto, io spezzerò la mia verga, la seppellirò parecchie tese sotterra e affonderò nel mare il mio libro molto più giù di quanto sia sceso mai lo scandaglio.

Prima di Satana, negli inferi sarebbe dovuto discendere re Artù. La storia letteraria non è solo dolorosamente costellata di capolavori perduti (come si sarebbero riconciliati il titano e Zeus nel Prometeo Liberato?) ma anche di strade non percorse, di intuizioni o progetti, spesso magnifici e suggestivi, che il caso o la necessità non hanno permesso di percorrere. Dal completamento del Ciclo dei Vinti di Verga alla versione cinematografica di Proust a opera di Visconti. Tra queste “roads not taken” a la Robert Frost, c’è sicuramente il poema epico-fantastico di John Milton. Certo, anche nell’epica biblica del Paradiso Perduto gli echi e i rimandi alla tradizione faerica sono ben presenti. Basti pensare alla similitudine con cui viene raccontata la calca dei demoni nel palazzo infernale:

De’ più piccoli Nani a un tratto farsi
Più piccioletti ancora, e breve stanza
Chiuder stormo infinito. A lor somiglia
Quell’umil stirpe di Pimmei (se narra
La fama il vero), che dell’Indie estreme
Vive oltra i monti, o quei Folletti Spirti
Che in notturni tripudi o vede o sogna
Vedere appresso una foresta o un fonte
Il tardo peregrin, mentre sul capo
Dritto gli pende della luna il raggio
Che più vicino a noi ruota il bicorne
Pallido carro: a lor carole e feste
Stan quelli intenti: a lui molce l’orecchia
Dolce concento, e fra timore e gioia
Gli balza il cor.

E la struttura stessa del poema è fitta di richiami alle opere di Ariosto, Tasso e Spenser. Ma è davvero interessante notare come Milton si fosse precedentemente interrogato su quale poema epico intraprendere. Nel suo Reason for the Church Government, egli infatti aveva raccontato di aver inizialmente pensato a un poema cavalleresco, e nello specifico “quale re o cavaliere alla conquista vada scelto per tratteggiarvi il cammino dell’eroe cristiano”. Esattamente lo stesso programma ideologico e allegorico di Spenser, sebbene in chiave puritana e cromwelliana e non anglicana e monarchica. E, al pari di Spenser, la risposta sarebbe dovuta essere l’eroe leggendario nazionale, re Artù. Un Artù in cui la componente fantastica-avventurosa sarebbe stata davvero peculiare, stando a quanto Milton stesso accenna nel Mansus, dedicato al vecchio amico di Torquato Tasso stesso, in un componimento in latino in cui ringrazia l’umanista italiano per l’ospitalità e l’amicizia:

Te pridem magno felix concordia Tasso
Junxit, et æternis inscripsit nomina chartis.
O mihi si mea sors talem concedat amicum
Phœbæos decorâsse viros qui tam bene norit,
Si quando indigenas revocabo in carmina reges,

Arturumque etiam sub terris bella moventem;
Aut dicam invictæ sociali fœdere mensæ,
Magnanimos Heroas, & (O modo spiritus adsit)
Frangam Saxonicas Britonum sub Marte phalanges.
La felice amicizia unì voi e il grande Tasso,
e inscriveva i vostri nomi in pagine eterne.
Se mai il mio canto rievocherà i re della mia terra
e Artù che muove guerra persino sotto terra;
se mai racconterò i magnanimi eroi
nella virtuosa amicizia della Tavola Invitta
e – assista lo spirito – se mai farò cozzare
le falangi sassoni con la guerra britanna,
possa allora la mia fortuna concedermi
un amico siffatto, che sappia onorare
così bene i figlioli di Febo.

Come tanti progetti appena tratteggiati, questa  mera evocazione di Artù (e dei Druidi, in un altro passaggio del componimento) è destinata a lasciare gli appassionati dolorosamente frustrati: quali battaglie attendessero il sovrano nelle viscere della Terra, quali portenti e misteri, quali nemici e imprese sarebbero state immaginate da chi avrebbe poi raccontato la guerra tra Satana e Michele, resterà sempre una porta sigillata, o una caverna oscura, da cui provengono strane luci scarlatte, e fragori misteriosi, come di spade e scudi…

Le Fate a corte

L’umanità, nella sua ricerca senza requie d’un paese ideale e fatato nel quale vivere, si identifica con la civiltà di qualche altra epoca o popolo che sembra possedere le qualità che apprezza maggiormente, ed essere priva di quelle che disapprova di più.
Lord David Cecil

Il Diciassettesimo e Diciottesimo Secolo sono ricchi di molteplici filoni, che eserciteranno un ruolo importante nella storia del fantastico e del fantasy. Da una parte, si assiste alle prime sistematiche catalogazioni del folklore e delle leggende, sempre meno improntate a una loro valutazione fideistica (e repressiva) e più al loro apprezzamento antiquario ed estetico. Basti pensare a Il regno segreto del sacerdote Robert Kirk, il cui decesso fu ritenuto una misura prudenziale delle fate stesse, un rapimento per impedirgli di divulgare troppi loro segreti. Un secolo dopo, il poeta William Blake sosterrà di aver personalmente assistito a un funerale delle fate (ma, a onor del vero, bisogna ricordare anche che era convinto di vedere Dio fare capolino alla finestra di casa).

Tuttavia questi sono anche i secoli in cui si diffonde e affina la tradizione letteraria della Fiaba nella sua accezione moderna. Ancora una volta, il fantastico prende le mosse dall’Italia. Il Cunto de li cunti di Basile, secoli prima di essere riadattato da Benedetto Croce, sarebbe stato una fonte decisiva per le ben più celebri raccolte di Perrault, dove, per dirla con Tolkien, le fate si incipriano, coprono di gioielli e parrucche e si recano a corte. E lo stesso Tolkien avrebbe riconosciuto che “così forte è stata l’influenza esercitata da Charles Perrault, dacché i suoi “Contes de ma Mère l’Oye” furono per la prima volta tradotti in inglese nel XVIII secolo, e da altri estratti ampiamente noti del vasto inventario del “Cabinet des Fées”, che ancora oggi, penso, se chiedete a qualcuno di citare a caso una ‘fiaba’ tipica, con ogni probabilità ve ne nominerà una di origine francese, come ‘Il gatto con gli stivali’, ‘Cenerentola’ o ‘Cappuccetto Rosso’”
Da Collodi (che lo tradusse) a Rossini, da Cjaikovskij a Walt Disney, tutti gli sono debitori.

Sulle raccolte di fiabe di Madame Daulnoy e Perrault, sulla ricchezza di senso pressoché infinita delle loro immagini, dove intuizioni e tabù ancestrali, le gioie e le tragedie della nostra condizione mortale si fanno scena e azione, con una apparente levità espressiva (la fiaba è veloce, come noteranno Calvino e Lewis) che è solo la complessità che cancella il suo sforzo, e Cristina Campo – da par suo – ha saputo come pochi cogliere il valore che si cela persino nei loro dettagli più noti.

Ecco il preludio della grande crisi, il ballo a corte: “Come fu così agghindata, ella salì in carrozza; ma la madrina le raccomandò sopra ogni cosa di non passar mezzanotte, avvertendola che se restasse più lungamente al ballo la sua carrozza ridiverrebbe zucca, i suoi cavalli sorci, i lacché lucertole, e che le sue belle vesti riprenderebbero la sua antica forma”. Il mistero del tempo e la legge del miracolo sono indicati in queste poche parole con leggerezza estrema e tuttavia con quale risolutezza. A che può condurre l’infrazione di un limite se non al regresso tragico nel tempo, al risveglio, il mattino, sulle ceneri fredde? Cenerentola sfiora, nella terza e più gloriosa notte di ballo, quel precipizio: e per schivarlo, fuggendo all’impazzata, non si cura di perdere il suo scarpino di vaio, di rinunciare a un lembo del gratuito, estatico presente del quale una potenza l’ha rivestita. Ma ecco, sarà proprio quel filo, lo scarpino di vaio, a ricondurla al principe. La sua perdita volontaria diverrà il suo guadagno.

Le Fate non solo passeggiano a corte, ma in cui l’Ancien Regime stesso pare gareggiare col mondo delle fiabe quanto a splendore. Si prenda questo brano dalla biografia che Zweig dedica a Maria Antonietta e che, nella sua mera elencazione sfarzosa, potrebbe essere un passo di Perrault stesso, con le sue posate d’oro e le carrozze di cristallo:

Sono tempi d’oro per i fornitori di corte, sarti, gioiellieri, carrozzai. Per il viaggio della sposa, Luigi XV ha ordinato al fornitore Francien di Parigi due berline da viaggio di mai vista bellezza: legno prezioso, cristalli lucenti, fastose corone, imbottitura interna di velluto, squisite pitture all’esterno e molleggi meravigliosi, leggerissimi e sensibili alla più lieve spinta. Per il delfino e per il seguito reale si acquistano nuove marsine di lusso ricamate e costellate di gemme preziose; il «grande Pitt», il più grosso diamante di quel tempo, adorna il cappello di nozze di Luigi XVI. Con pari fasto Maria Teresa prepara il corredo della figlia, ricco di merletti preparati appositamente dai fuselli di Malines, di finissime tele, sete e gioielli. Finalmente giunge a Vienna, per la solenne richiesta, l’ambasciatore Durfort, ed è uno spettacolo magnifico per i viennesi sempre appassionati di ogni festività: quarantotto cocchi a sei cavalli, tra cui le due meravigliose berline regali, percorrono sino alla Hofburg con solenne lentezza le vie inghirlandate: centosettemila ducati sono costate soltanto le livree dei centodiciassette lacchè che accompagnano l’ambasciatore, e tutto il corteo non meno di trecentocinquantamila.

Nella stessa Austria da cui era partito il corteo nuziale, il fratello di Maria Antonietta fungeva da patrono al Mozart che avrebbe concluso la sua carriera con un’opera fantastico-esoterica il cui libretto attingeva proprio alle coeve raccolte di fiabe popolari (Jinnistan ovvero Raccolta di fiabe di fate e di spiriti di Cristoph Martin Wieland, lo shakespeariano Oberon, re degli Elfi di Karl Ludwig Giesecke) e che comprende serpenti giganti e regine della notte, prove iniziatiche tripartite come nelle fiabe e vecchie e il riscoperto Egitto massonico, giovani innamorati e flauti magici…

Si racconta che il giovane Goethe, visitando le decorazioni che avrebbero festeggiato le nozze di Antonietta e Luigi di Francia, abbia notato una rappresentazione di Giasone e Medea e abbia esclamato che una storia così sinistra era di cattivo augurio per un matrimonio reale. Anche in questo caso, la realtà riecheggiava la narrativa e l’immaginazione. Come nei presagi e negli incantesimi scagliati alle nozze o ai battesimi nelle fiabe, anche le parole di Goethe si sarebbero rivelate veritiere, quando secoli d’ingiustizia, oppressione e malgoverno avrebbero infine suscitato una bufera quale mai si era vista in Europa, e che avrebbe travolto saloni e carrozze, re e regine.

Il reduce folle di Faerie: Jonathan Swift

Anch’io mi chiedevo, vedendo quell’occhio smarrito, se parlavo con l’uomo che un tempo fu Bellerofonte. A tuo padre è accaduto qualcosa. Non è vecchio soltanto. Non è soltanto triste e solo. Tuo padre sconta la Chimera.
Cesare Pavese

Militò tra i Whigs ma, disgustato, si rifugiò nel conservatorismo Tory. Fu un ministro protestante che irrideva il cristianesimo. Riteneva il mondo intero un manicomio (in una sua poesia, un Dio-Io-potenziato spedisce tutti all’inferno) e finì egli stesso internato per demenza senile. La stessa amarezza paradossale costituisce l’intelaiatura del suo libro più celebre, che a sua volta ha patito un fato beffardo come quello del suo creatore. I Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift sono infatti “un’opera cupa e possente, dai contorni duri e geometrici” (M. Praz), una beffarda “Andata e ritorno” dove, come in Shakespeare, il fantastico serve da lente ribaltata per osservare la nostra stessa vita. Solo che stavolta non c’è spazio per il sorriso bonario di Puck, o la misericordia di Ariel. Gli gnomi di Lilliput, i giganti di Brobdingag, Laputa, l’isola volante, le terre civili dei cavalli parlanti Houyhnhnm sono continue variazioni sul leitmotiv dell’utopia-distopia, un genere immaginativo che risale all’Odissea (tutta basata su diverse applicazioni della xenia, la legge dell’accoglienza, dai generosi Feaci a Polifemo) e a Luciano, e che il Rinascimento di Campanella e Moro aveva ripreso nella sua accesa riflessione politica. D’altra parte, che Marx tributasse attenzione al regno prodigioso di Moro, è ennesima testimonianza di quanto il fantastico sappia essere politico. Per dirla con Oscar Wilde, “una mappa che non contenga la terra di Utopia non merita neppure un’occhiata fuggevole”.

È la nostra stessa natura umana che, miniaturizzata,  si mostra nelle sue meschine piccinerie, oppure, asservita ai nobili cavalli, viene duramente contestata nella sua pretesa egemonica sul creato. Tolkien avrà molte obiezioni al riguardo, arrivando persino a bandire Swift dal canone fantastico: “I racconti di Gulliver non hanno maggior diritto d’accesso delle fandonie del Barone Munchausen; od anche, diciamo, de “I Primi Uomini sulla Luna”, o de “La Macchina del Tempo”. A dire il vero, gli Eloi e i Morlock ne avrebbero maggior diritto dei lillipuziani. I lillipuziani non sono altro che uomini guardati dall’alto in basso, con occhio sardonico, appena da sopra i tetti delle case. ”

In realtà, Faerie è un regno troppo vasto e sa comprendere anche la satira sociale, come testimonia la vitalità e varietà degli eredi di Swift, da Lewis Carroll a Calvino, Mervyn Peake, C. S. Lewis e Neil Gaiman (e come stesso Tolkien ammise nel medesimo saggio). Non solo; Swift è anche uno dei primi autori ad accennare alcune delle parole e delle lingue parlate nei mondi fantastici e a raccontare in maniera dettaglia il ritorno nel nostro mondo di chi abbia vissuto tra spiriti e gnomi. Un nostos che è sempre traumatico, ma spesso si rivela irrimediabilmente tragico.

La mia memoria e la fantasia eran sempre piene degli houyhnhnm e delle loro nobili virtù; e inorridivo e mi vergognavo al pensare che, unendomi a una femmina yahoo, ero diventato padre di parecchi di codesti animali. Quando ebbi varcato la soglia della mia casa, mia moglie corse ad abbracciarmi e mi diede un bacio; disavvezzo com’ero da cinque anni al contatto di esseri sì odiosi, fui colto da uno svenimento che durò più di un’ora. Nel momento in cui scrivo sono finiti altri cinque anni dal mio ritorno in Inghilterra. Il primo anno non potevo resistere alla vista di mia moglie e dei miei figli, né sopportare il loro cattivo odore; tanto meno avrei permesso che mangiassero alla mia tavola. Anche al giorno d’oggi nessuno di loro deve toccare il mio pane o bere nel mio bicchiere, né è loro concesso di prendermi una mano. Appena ebbi del denaro comprai due giovani stalloni e li misi in una bella scuderia; dopo di loro, la persona che prediligo è lo stalliere, perché l’odore di stalla che tramanda mi rianima e mi esilara. I miei cavalli mi comprendono perfettamente e io passo almeno quattr’ore tutti i giorni a parlare con essi. Non hanno mai provato briglia né sella, e vivono assai intimamente con me e in buona amicizia fra loro.

Esposto a una vastità che ha ribaltato le sue concezioni, Leopold Gulliver ormai è come una casa squarciata, un reduce che suscita risate e inquietudine, considerato un lunatico da coloro che – a ben pensarci – sono i veri pazzi. L’antico topos del viaggiatore che si avventura in Faerie e torna dopo poche ore per scoprire che nel mondo umano sono invece trascorsi secoli, rivela una sua dimensione esistenziale e conoscitiva. Un altro tema che la letteratura successiva continuerà a investigare e approfondire, dal Vecchio Marinaio di Coleridge al Frodo di Tolkien. Come notava sempre Praz, “per un destino ironico, il capolavoro di questa maestro dell’ironia che non sopportava la vicinanza dei bambini, è stato degradato da satira contro l’umanità a classico del ridere pei fanciulli.” Swift forse non se ne sarebbe stupito, come non si sarebbe stupito che – guarda la coincidenza – uno dei motori di ricerca principali di internet avrebbe avuto lo stesso nome con cui i suoi cavalli parlanti definivano quelle rozze bestie che sono gli uomini: Yahoo.

The Fairy Way of Writing
Ciò che oggi può dimostrarsi, una volta fu solo immaginato.
William Blake

Negli stessi decenni, il fantastico è anche oggetto di importanti riflessioni teoriche ed estetiche. Come abbiamo visto, lo era stato anche nei secoli passati, soprattutto in pieno Rinascimento, e la filosofia e la critica letteraria del ‘700 prosegue e approfondisce la tradizione precedente. Basti pensare al ruolo riservato all’immaginazione nelle opere di Rosseau, Kant, Blake, all’analisi del mito in Vico, o allo studio dei poemi cavallereschi da parte di Foscolo. Tuttavia, il secolo dell’Illuminismo, delle enciclopedie e dei giornali, dei cafè e dell’ascendente borghesia, elabora nuovi strumenti di condivisione, lettura e dibattito. Come le grandi riviste culturali. Ed è proprio su una delle più celebri e significative, The Spectator, che Addison, il 1 Luglio 1712, colloca una definizione di Dryden in un più ampio contenuto immaginativo. E sebbene il percorso compiuto finora non ci permetta più di sostenere – con David Sander – che si tratti della “prima” analisi critica del fantasy, resta tuttavia un passaggio fortemente significativo, perché il fantastico vi viene effettivamente riconosciuto come un genere narrativo con caratteristiche peculiari. Faerie non è semplicemente un’ambientazione, ma un modo di immaginare e scrivere.

C’è un tipo di scrittura laddove il poeta perde di vista la Natura, e intrattiene l’ immaginazione del lettore con i personaggi e le azioni di persone tali da non avere vita propria, ma solo quella che egli conferisce loro; come fate, streghe, maghi, demoni, demoni e spiriti defunti. È questo che il signor Dryden definisce il modo fiabesco di scrivere (the fairy way of writing), che in effetti risulta più difficile di qualsiasi altro che dipenda dalla fantasia del poeta, giacché in esso egli non ha alcun modello da seguire, e deve lavorare completamente di sua invenzione.

Una strano rivolgimento del Pensiero è necessario per questo tipo di Scrittura, ed è impossibile per un Poeta riuscirvi, qualora non possieda un particolare getto di Fantasia, e un’Immaginazione naturalmente feconda e superstiziosa. Inoltre, dovrebbe essere assai esperto di Leggende e Favole, Romanzi antichi, e  Tradizioni di balie e vecchie, per potevi riversare i nostri pregiudizi naturali, e conferire umorismo a quelle Nozioni che sono state il latte della nostra infanzia. Perché, altrimenti, sarà propenso a far parlare le fate come persone della sua stessa specie, e non come esseri di tutt’altro genere, che dialogano con oggetti diversi, e pensano in modo diverso dal genere umano.

Non si tratta più d’un elemento o ambientazione dell’epica. Ormai il fantasy è stato esplicitamente tenuto a battesimo, iuxta propria principia, e i decenni successivi si potrebbero paragonare al proverbiale dito che tappava la cataratta premuta dalla cascata. Addison ha già elencato una serie di termini e concetti che saranno investigato da una ricca serie di contributi critici e teorici (su termini come fancy o imagination, o sulla riscoperta delle leggende e dei poemi cavallereschi) e incarnati da una più vasta produzione artistica. Racconti, poesie, poemi, teatro, romanzi, opere musicali. Gli anni di Coleridge, Byron, Wordsworth, Novalis, i fratelli Grimm, di Schlegel, Goethe. Hoffmann, Mendelsohn e Keats. La seconda grande stagione del fantastico europeo, dopo la primavera arturiana rinascimentale. Forse basterebbe semplicemente dire che sono gli anni del Romanticismo, e  anche per il fantasy è in arrivo una tempesta.



Testi di Edoardo Rialti (1982) è traduttore di letteratura anglo-americana e letteratura fantasy, sci-fi, horror, per Mondadori, Lindau, Gargoyle, Multiplayer. Tra gli altri ha tradotto e curato opere di J.R.R. Martin, C. S. Lewis, J. Abercrombie, P. Brown, O. Wilde, W. Shakespeare. E’ collaboratore de “Il Foglio” dove si occupa di critica letteraria e ha scritto le biografie a puntate di J. R. R. Tolkien, G. K. Chesterton, C. S. Lewis, C. Hitchens. Ha insegnato in Italia e Canada. Dipendesse da lui, la sua giornata comprenderebbe solo caffè, sport e scrittura.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *